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Sentenza

Trapani. Dirigente medico chiede indennità sostitutiva per le ferie non godute. ...
Trapani. Dirigente medico chiede indennità sostitutiva per le ferie non godute. Ricorso accolto e l'Asp condannata a pagare.
Tribunale Trapani Sez. lavoro, Sent., 14-09-2021

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Trapani in persona del dott. Mauro Petrusa in funzione di Giudice del Lavoro, nella causa tra:

G.S., C.F. (...),

parte ricorrente, rappresentata e difesa giusta procura in atti dall'avv.

Giuseppe Stassi e Gaspare Friscia

e

A.S.P. - A.- DI T., CF/p.iva (...), in persona del legale rappresentante

Parte resistente, rappresentata e difesa giusta procura in atti dall'avv. Giovanna Di Maria.

OGGETTO: retribuzione

La controversia viene definita mediante la presente

SENTENZA
Svolgimento del processo

Con ricorso ritualmente notificato la parte ricorrente indicata in epigrafe ha adito questo Tribunale esponendo:

- di aver lavorato alle dipendenze della parte resistente, quale dirigente medico, dal 29 febbraio 2006 al 29 febbraio 2020, data dell'estinzione del rapporto per dimissioni volontarie;

- di aver maturato n. 61 giorni di ferie non godute (in particolare: n. 19 gg. nell'anno 2018, 36 gg. nell'anno 2019 e 6 gg. all'anno 2020), nonostante rituali domande di fruizione presentate a dicembre 2018 e a novembre 2019;

Chiede pertanto la condanna dell'A. resistente al pagamento di una indennità sostitutiva delle ferie non godute (di matrice risarcitoria) quantificata nella misura di Euro 10.225,02.

Si è costituita in giudizio la società resistente chiedendo il rigetto del ricorso, posto che il rapporto è cessato per dimissioni volontarie del lavoratore, quindi, la mancata fruizione delle ferie in oggetto è ascrivibile anche al fatto proprio del dipendente.

Sul contraddittorio così costituito, la causa è stata decisa.
Motivi della decisione

Il ricorso va accolto nei limiti che seguono.

Preliminarmente giova ricordare che, a norma dell'art. 10 del D.Lgs. n. 66 del 2003, così come modificato ad opera del D.Lgs. n. 213 del 2004, il lavoratore matura il diritto di fruire di un periodo ferie retribuite nella misura di n. 4 settimane l'anno (salva favorevole previsione del CCNL applicabile). Il detto congedo ordinario "va goduto per almeno due settimane ... nel corso dell'anno di maturazione e, per le restanti due settimane, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione.

Il predetto periodo minimo di quattro settimane non può essere sostituito dalla relativa indennità per ferie non godute, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro".

Nel pubblico impiego, l'ultima parte della disciplina appena riportata è inapplicabile a decorrere dal 7.7.2012, allorché è entrato in vigore l'art. 5 co. 8 del D.L. n. 95 del 2012 (conv. L. n. 135 del 2012), il quale ha stabilito: "Le ferie, i riposi ed i permessi spettanti al personale, anche di qualifica dirigenziale, delle amministrazioni pubbliche ... sono obbligatoriamente fruiti secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età. Eventuali disposizioni normative e contrattuali più favorevoli cessano di avere applicazione a decorrere dall'entrata in vigore del presente decreto. La violazione della presente disposizione, oltre a comportare il recupero delle somme indebitamente erogate, è fonte di responsabilità disciplinare ed amministrativa per il dirigente responsabile".

In altri termini, mentre nel lavoro privato la mancata fruizione del congedo ordinario maturato può dare luogo ad un credito pecuniario (solo) nel caso di estinzione del rapporto, nel pubblico impiego il divieto di monetizzazione coniato dal legislatore sembrava non ammettere deroghe, neppure laddove il rapporto lavorativo fosse cessato.

In realtà, già all'indomani dell'entrata in vigore del citato decreto legge, la prassi amministrativa si è orientata nel senso di ridimensionare la portata del divieto di monetizzazione, anche in ragione della necessità di coordinare l'ordinamento nazionale con l'art. 7, comma 2, della direttiva n. 2003/88/CE, che impone di riconoscere una riparazione pecuniaria quando le ferie non siano godute per causa non imputabile al lavoratore.

Venne quindi ritenuta ammissibile la corresponsione di una indennità sostitutiva nei casi in cui la mancata fruizione delle ferie fosse riconducibile a causa non imputabile alle parti (cfr. nota del Dipartimento della funzione pubblica dell'8 ottobre 2012).

Chiamata dal Tribunale di Roma a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale della normativa dettata per il pubblico impiego, la Corte Costituzionale, con sent. n. 96/2016, rigettando la questione, sul presupposto che la disciplina censurata avrebbe dovuto essere interpretata in modo restrittivo (conformemente all'orientamento peraltro già assunto dalla prassi amministrativa).

La sentenza della Corte si sofferma in particolare sulle ragioni dell'estinzione del rapporto lavorativo, sottolineando la necessità che, per consentire la monetizzazione del congedo residuo, queste prescindano dalla volontà del lavoratore.

Infatti, la Corte evidenzia la circostanza che "il legislatore correli il divieto di corrispondere trattamenti sostitutivi a fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o ad eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie".

E' alla luce di tali principi che va esaminato il caso di specie, e l'analisi deve essere operata distintamente per ciascuno dei tre periodi di congedo menzionati in ricorso.

1) per quanto concerne le ferie maturate nel 2018 (19 giorni): queste avrebbero dovuto essere fruite entro il giugno 2019. Il S. aveva chiesto di poter fruire del congedo maturato (cfr. doc. 4, richiesta del 17.12.18), ma il direttore sanitario, ravvisando una competenza del direttore dell'U.O.C. di riferimento, ha omesso di pronunciarsi sulla domanda (cfr. Provv. del 18 dicembre 2018, in calce all'istanza).

In realtà, a norma dell'art. 5 del D.P.R. n. 128 del 1969, fra i compiti del Direttore Sanitario rientra pure la gestione del personale. La disposizione citata afferma infatti che il Direttore Sanitario "stabilisce in rapporto alle esigenze dei servizi l'impiego, la destinazione, i turni e i congedi del personale sanitario, tecnico, ausiliario ed esecutivo addetto ai servizi sanitari dell'ospedale cui è preposto ... ha la vigilanza sul personale che da lui dipende anche dal punto di vista disciplinare, propone alla amministrazione le sostituzioni temporanee del personale sanitario". Anche a voler supporre che, sulla scorta di una delega interna il compito di provvedere sulle richieste di congedo sia stato devoluto al dirigente dell'U.O.C. (circostanza che, per la verità non è neppure menzionata nella memoria di costituzione dell'Azienda), si deve ritenere che il Direttore Sanitario aveva l'onere di trasmetterla al dirigente competente. In ogni caso, non si può ritenere che la domanda del S. fosse inesistente, quindi, il datore di lavoro avrebbe dovuto programmare le attività fino al 30 giugno 2019 (termine ultimo per la fruizione del congedo ritualmente invocato dall'odierno ricorrente) individuando un "piano di rientro" che consentisse lo smaltimento del congedo ordinario maturato dal S. nel 2018.

E' quindi irrilevante la circostanza che, a febbraio 2020, il S. si sia dimesso volontariamente, perché a quel tempo, l'A. avrebbe già dovuto esitare la sua richiesta di ferie ritualmente presentata il 17.12.2018.

Sotto questo profilo, il ricorso è fondato.

2) per quanto concerne le ferie maturate nel 2019 (36 gg.): la richiesta di fruizione è stata ritualmente presentata in data 22.11.2019, reiterando anche la domanda per le ferie maturate nel 2018 (all. 5), ma è stata rigettata per imprecisati "motivi di servizio". Il CCNL prevede, nell'art. 33, che almeno 15 giorni dei 32 giorni di ferie vengano fruiti fra il 1 giugno e il 30 settembre dell'anno di maturazione. Gli altri 17 giorni vanno preferibilmente fruiti nell'anno di maturazione salvo che, per "indifferibili esigenze" di servizio o del lavoratore, ciò non sia possibile (art. 33 comma 12 del CCNL sanità). Il ricorrente ha fatto riferimento ad altri 4 giorni di ferie che, presumibilmente, riguardano le c.d. festività soppresse.

In sostanza, dei 36 giorni di "ferie" maturati nel 2019: 15 giorni avrebbero dovuto essere fruiti entro il 30 settembre 2019 e 4 giorni entro il 31 dicembre 2019. I restanti 17 giorni avrebbero dovuto essere fruiti preferibilmente entro il 31 dicembre anch'essi, salvo che, per "indifferibili esigenze di servizio" l'A. non abbia inteso posticiparle la concessione, comunque entro il 30.6.2020 (ex art. 10 D.Lgs. n. 66 del 2003 e art. 33 co. 12 CCNL sanità).

Occorre quindi chiedersi se ed entro quali limiti abbia rilevanza la circostanza che, il 29.2.2020, la cessazione del rapporto non sia avvenuta per ragioni indipendenti dalla volontà del lavoratore, bensì per dimissioni spontanee.

Se infatti, prima facie, dalla citata pronuncia della Corte Costituzionale del 2016 sembra potersi desumere che, nel caso di dimissioni volontarie, il lavoratore perde senz'altro la possibilità di ottenere la monetizzazione delle ferie maturate e non fruite (come vorrebbe l'A.), ad un maggiore approfondimento la questione sembra presentare nuove sfaccettature.

Occorre infatti domandarsi quale sia l'esatto perimetro del dovere di diligenza del lavoratore che voglia dimettersi senza compromettere il proprio diritto a fruire del congedo già maturato.

Di certo si deve escludere che sul lavoratore gravi un onere di postergare il proprio recesso del tempo necessario per godere delle ferie residue, come invece afferma l'A. a pag. 5 della memoria. Infatti, in primo luogo, a ragionare diversamente, si finirebbe per richiedere al lavoratore uno sforzo di diligenza che va ben oltre l'ordinarietà, specie se si considera che, nel pubblico impiego, vige un divieto di cumulo con altre forme di impiego privato.

In secondo luogo, bisogna considerare che il lavoratore non può stabilire unilateralmente il periodo di congedo. In altri termini, costui non potrebbe posticipare le proprie dimissioni al fine di fruire delle ferie residue, in quanto è pur sempre necessario che il datore di lavoro autorizzi il congedo.

In terzo luogo, non è chiaro quale sarebbe il vantaggio per il datore di lavoro, laddove il dipendente postergasse il proprio recesso per il tempo necessario a godere delle ferie maturate: in ogni caso, il datore di lavoro dovrebbe corrispondere la retribuzione senza poter pretendere la prestazione lavorativa.

Non può essere quindi condivisa la tesi dell'A., secondo la quale il S. "avrebbe dovuto valutare, oltre al termine di preavviso ... anche un periodo per l'utilizzo delle giornate di congedo ordinario residue in dipendenza delle dimissioni rassegnate" (memoria p. 5)

Lo scrivente ritiene che l'indicazione offerta dalla Corte Costituzionale nella sent. 95/16 sia più complessa di quanto possa sembrare: la Corte, come già detto, ha valorizzato il fatto che il legislatore del 2012 abbia deciso di correlare il divieto di monetizzare le ferie a ipotesi fattispecie in cui la cessazione del rapporto di lavoro è riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore o ad altri eventi, "che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore in merito al periodo di godimento delle ferie".

Quindi, il discrimen non risiede tanto sulla causa (volontaria o meno) della cessazione del rapporto, quanto sulla circostanza che il datore di lavoro abbia o non abbia potuto pianificare lo smaltimento delle ferie residue.

Seppure il lavoratore si è dimesso volontariamente, ma il datore di lavoro avrebbe potuto (e quindi dovuto) organizzare la propria attività in modo diverso al fine di consentire al dipendente di godere del diritto maturato, la lesione di tale diritto non può che avere uno sbocco risarcitorio, non essendo più possibile la soddisfazione in natura del diritto del dipendente.

Dal momento che l'indennità sostitutiva delle ferie non fruite ha anche matrice risarcitoria (Cass. 6115/17, Cass. 11462/12), si deve ritenere che la quantificazione del danno (laddove la P.A. non si sia comportata in modo diligente) possa avvenire in misura fissa e forfettaria, senza onere di provare una effettiva deminutio, attraverso il riconoscimento di tale indennità.

Alla luce di tale premessa, va detto che, sin dal novembre del 2019 il Saldino aveva espresso la volontà di fruire dei 36 giorni di congedo maturati nel corso dell'anno (presumibilmente cumulando i 32 giorni di congedo ordinario previsti dal CCNL con i 4 giorni per le c.d. "festività soppresse"). Il diniego del datore di lavoro è stato connotato da una evidente omissione motivatoria ("non si concedono le ferie richieste per motivi di servizio"), quindi, non è possibile conoscere quali fossero gli ostacoli che il datore di lavoro abbia riscontrato per consentire al S. di godere del diritto acquisito. Già sotto questo profilo, va evidenziato che l'art. 33 co. 12 del CCNL Sanità afferma che "In caso di indifferibili esigenze di servizio o personali che non abbiano reso possibile il godimento delle ferie nel corso dell'anno, le ferie dovranno essere fruite entro il primo semestre dell'anno successivo". Quindi, come detto, la regola è quella per cui il lavoratore deve poter fruire di tutte le ferie nel corso dell'anno di maturazione, salvo che, per "indifferibili esigenze di servizio" (oltre che personali), ciò sia impossibile. Il datore di lavoro che intenda rigettare la (legittima) domanda di ferie del lavoratore è quindi tenuto a fornire una motivazione ben più articolata di quella spesa dall'A. nel caso in esame.

Del resto va sottolineato che, dei 36 giorni chiesti dal S., 15 giorni avrebbero dovuto essere stati già fruiti prima del 30 settembre, quindi, almeno con riferimento a questa quota di giorni l'A. non avrebbe potuto affatto rigettare la domanda del lavoratore, ma avrebbe dovuto accoglierla. Per i 4 giorni relativi alle c.d. "festività soppresse", poi, l'A. avrebbe dovuto programmarne la fruizione immediata (visto che questa sarebbe dovuta avvenire entro meno di due mesi). Per i 17 giorni di ferie residui, poi, l'A. avrebbe dovuto programmare lo smaltimento entro tempi brevi (posto che, come detto, di regola, anche questi giorni avrebbero dovuto essere goduti entro la fine dell'anno di maturazione), ovvero, indicare in modo chiaro ed intellegibile le "indifferibili esigenze di servizio" che precludevano l'accoglimento della richiesta.

Nulla di tutto ciò è stato fatto. La spiegazione, contenuta in memoria, circa la consistenza delle dette "esigenze di servizio" è infatti tardiva, in quanto al lavoratore non è stata data la possibilità di conoscere i motivi del diniego ed apprezzarne l'effettiva sussistenza, eventualmente provocando un sindacato giurisdizionale sulla statuizione datoriale. A ciò si aggiunga che, come già detto, il diniego avrebbe potuto comunque riguardare solo 17 dei 36 giorni di ferie naturati nell'anno 2019.

Diviene quindi irrilevante la circostanza che il S., con nota del 29.11.2019, ha manifestato la propria volontà di dimettersi e che, a quel punto, il datore di lavoro non aveva più la possibilità di programmare lo smaltimento delle ferie arretrate.

Le varie inadempienze già poste in essere dall'Azienda, a quel punto, si erano già consumate.

3) per quanto concerne le ferie maturate nel 2020 (6 gg.): il detto congedo è maturato durante il periodo di preavviso (che andava dal 29 novembre 2019 al 29 febbraio 2020), quindi, non era fisiologicamente possibile che il godimento venisse programmato prima della cessazione del rapporto.

Tuttavia, siccome il rapporto lavorativo è cessato per causa riconducibile al lavoratore, e nessuna negligenza può essere ascritta al datore di lavoro, secondo gli insegnamenti racchiusi nella sent. 95/16 C. Cost. (in questo caso pienamente applicabili), si deve ritenere pienamente operante il divieto di monetizzazione di cui all'art. 5 co. 8 D.Lgs. n. 95 del 2012.

In conclusione, il ricorso va accolto parzialmente e l'A. va condannata al pagamento di un'indennità sostitutiva delle ferie maturate dal ricorrente negli anni 2018 e 2019 e non godute al momento della cessazione del rapporto, quantificabile in Euro 9.246,32, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria decorrenti dalla data di maturazione del credito fino al saldo. La natura di credito lavorativo dell'indennità in oggetto consente infatti il cumulo fra i detti accessori, a differenza di quanto sostenuto dall'A. a pag. 7 della memoria (Cass. 13624/20).

La misura del detto credito è stata individuata sulla scorta della consulenza di parte allegata dal ricorrente che, sebbene assunta al di fuori del contraddittorio (come correttamente evidenziato dall'Azienda), non è stata specificamente contestata, nel senso che la resistente non ha né individuato un vizio logico del ragionamento operato dal consulente, né ha indicato un importo alternativo a quello domandato in ricorso.

Ogni altra domanda avanzata dal ricorrente va rigettata.

Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate secondo i parametri del D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto del valore della causa e dell'espletamento delle fasi di studio, introduzione e decisione della stessa.
P.Q.M.

- Condanna l'A. di T. al pagamento in favore del ricorrente di un'indennità sostitutiva delle ferie maturate nel 2018 e nel 2019 e non

fruite all'atto della cessazione del rapporto, quantificandone l'ammontare in Euro 9.246,32 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria a decorrere dalla data di maturazione dei crediti fino al pagamento;

- Condanna l'Azienda resistente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 2.000,00 oltre iva, CPA e spese generali;

Così deciso in Trapani, il 14 settembre 2021.

Depositata in Cancelleria il 14 settembre 2021.
Avv. Antonino Sugamele

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